Negli ultimi anni, si parla sempre più spesso di Inclusive Marketing.
Esigenza imprescindibile all’interno del mercato B2C, il Marketing Inclusivo considera tutti gli aspetti identitari di una persona, come il colore della pelle, l’identità di genere, l’orientamento sessuale, l’etnia, la cultura, tenendo conto anche dell’intersezionalità, ovvero, che una singola persona può essere ricca di sfumature che abbracciano anche identità e dimensioni differenti.
Ogni brand sta lentamente prendendo consapevolezza della necessità e delle opportunità dell’Inclusive Marketing, allineando (alcune volte in maniera coerente, altre in maniera forzata) la propria comunicazione a una società che vuole emanciparsi dagli stereotipi.
Ma quanto rimane solo un’opportunità di business e quanto invece è una rivoluzione vera del modo di concepire (e di vivere) il brand stesso?
Inclusive Marketing: scelta concreta o mera opportunità di business?
Nei giorni scorsi, si è tenuta la settima edizione del ‘Diversity Brand Summit – Iniziative che cambiano il mondo’, iniziativa ideata dalla Fondazione Diversity e Focus Management per misurare il livello di inclusione dei brand e il reale impegno delle aziende nella D&I. Il claim di questa edizione è “Tabula Rasa”, scelto per sottolineare la necessità per le aziende di cambiare approccio, abbracciando il valore dell’inclusione ed eliminando ogni tipo di pregiudizio.
Durante l’evento sono stati presentati i dati del Diversity Brand Index 2024, unica ricerca italiana volta a misurare la capacità delle marche di sviluppare con efficacia a livello B2C una cultura orientata alla Diversity, Equity and Inclusion (DE&I).
Dati interessanti per conoscere l’evoluzione del mercato e le azioni intraprese dai brand.
Secondo la ricerca, 3 persone su 4 scelgono aziende che parlano di inclusione; 9 su 10 non consiglierebbero marche che vengono percepite come non inclusive e 6 su 10 brand che non prendono posizione. Un sentiment in grado di generare un differenziale della crescita dei ricavi di +23,4% per le aziende ritenute più inclusive.
Cosa significa? Che l’inclusione genera valore. Umano, ma anche di business.
Un dato incoraggiante per chi crede nel valore della libertà della persona in toto, ma un dato molto pericoloso per chi decide di usarlo solo per aumentare i propri ricavi, conquistando il favore di una fetta sempre più grande di consumatori.
Le persone sono sempre più consapevoli e attente. Riescono a leggere tra le righe di uno spot pubblicitario che si finge inclusivo.
Parlare di inclusività è giusto, laddove è veramente una scelta del brand. Altrimenti il messaggio perde di concretezza e la comunicazione diventa solamente un contenitore vuoto, trasformandosi in un potenziale boomerang per il business di qualsiasi brand. Ce lo insegna la storia. La soluzione? La trasparenza, la coerenza dei valori e una comunicazione vera. Tre pilastri antichi su cui basare ogni tipo di strategia, ma, per fortuna, sempre attuali.